Per tutti quelli che vivono
d’amore e di buona tavola!

di Giovanni Ognissanti

L a signora Lucia apriva i ricci con tanta dimestichezza che sembrava facile imitarla. Prendeva il riccio con una mano, senza pungersi o farsi male; poi, infilando la punta di una forbice nera da sarta nella bocca del riccio, iniziava a tagliare tutt’in giro quella spinosa sfera fino a staccarne una calotta. Dopo, con una mollica di pane, la signora iniziava a raccogliere il frutto di un rosso corposo che sapeva di mare. La mollica non era di un pane qualunque, ma di quello del forno a legna di Ze Zije, appena sfornata, umida e fragrante. A chi le chiedeva un assaggio, lei non rifiutava il dono di qualche profumato frutto, al prezzo di dieci lire cadauno. Con il piatto in ceramica poggiato sul paracarro in granito spogliato all’antica Siponto e imbiancato con latte di calce, all’angolo di Via San Lorenzo con Via de Florio, Lucia “arrangiava la giornata”. Vendeva anche le Telline, li cuquigghjie, come si chiamano da noi, che il figlio raccoglieva setacciando i bassi fondali sabbiosi dei Sciali e che, diceva Lucia, stimolare la produzione del buon latte nelle partorienti. Il figlio di Lucia era Paolo, nipote di Francesco Paolo, Frisch Pavele li pelose per gli abitanti del quartiere, bravissimo a raccogliere granchi sugli scogli a ridosso della porta del Boccolicchio. I granchi che raccoglieva erano di tre tipi: i pelose, i patosche e i sbirr. I più prelibati erano i primi, perché servivano ad aromatizzare la ciambotta, la zuppa di pesce, vera leccornia per il popolo meno abbiente. Paolo, era un tipo abbonato, indossava sempre dei pantaloni color mogano, di una lunghezza di qualche centimetro sopra le scarpe, che i ragazzi chiamavano “alla zumba fusse”.

Sia d’inverno che d’estate portava la stessa camicia con fondo chiaro e a quadri verdi. Diversi misteri avvolgevano la persona di Paolo: non si era mai saputo, ad esempio, chi fosse suo padre, o quante camicie di quel tipo avesse nell’armadio. Aveva, poi, un paio di occhiali con montatura nera e lenti spesse, che sembravano fondi di bottiglia, per cui i più si meravigliavano della sua abilità di uomo di mare. Paolo, aveva appreso dal nonno l’arte di pescare con le mani, ma sapeva anche usare u resacchie, un complicato dedalo di corde e di maglie sottili che, lanciate dalla riva, si aprivano quasi miracolosamente senza intrecciarsi, come i petali di una rosa appena sbocciata, intrappolando le povere prede sul fondo sabbioso. Paolo andava a raccogliere i ricci con la mappune, dove la sabbia cedeva il posto alla roccia calcarea, e cioè all’ Acquedotto americano, alla Cunzarije, a Salzene. La madre gli raccomandava di catturare i ricci femmine e non i maschi, perché questi erano “vacande”. Di solito i mesi migliori per mangiarli – diceva la signora – erano quelli con la r di mezzo, quindi mai d’estate. Il riccio per Lucia, aveva proprietà taumaturgiche, andava bene per i dolori, per la dissenteria e anche per la costipazione. Il riccio per la signora Lucia era un afrodisiaco, un ansiolitico, faceva placare il mal di testa ma, al tempo stesso, sapeva darti carica ed energia. Insomma andava bene per tutto, soprattutto per il malore contrario a quello per il quale lo avevi mangiato il giorno prima. Non per altro, tutte queste proprietà avevano una motivazione intrinseca: la zona più prelibata per “raccogliere” i ricci era quella dell’Acqua di Cristo!. Qualche giorno fa ascoltando le parole di Beppe Servillo, alla fine del suo recital, egli affermò, citando un passo di un libro di Osvaldo Soriano: “A Dio non piace il calcio, per questo siamo un mondo di merda”. Io aggiungo: “A Dio piacciono i ricci: ed è per questo che c’è l’amore”!